La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnero, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia.
L’art. 1 della legge che istituisce la ricorrenza afferma che la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
L’Associazione culturale Ad Undecimum ha deciso di celebrare il GIORNO DEL RICORDO pubblicando un breve scritto sull’esperienza personale di uno degli ESULI, l’Ing. Mario Viscovi che ci è stata fornita grazie all’amico prof. Tullio Vorano.
Ecco alcune brevi note della storia personale di Mario Viscovi esule da Albona d’Istria.
“Sono nato il 9 maggio 1928, secondo di 4 figli da Luigi Viscovi e Pia Negri. Gli antenati paterni erano presenti da molti secoli nella parrocchia di san Lorenzo, un borgo sovrastante la foce del fiume Arsa che si getta nel Quarnero. Quelli materni sono giunti ad Albona nel XV secolo con la Serenissima.
Dopo le elementari ho proseguito gli studi a Fiume fino all’esodo. Nel 1945 l’occupazione jugoslava ha comminato la prigione a mio padre e mio fratello maggiore con l’accusa di essere collaborazionisti; il cosiddetto tribunale del popolo ha quindi condannato mio padre alla nazionalizzazione di tutti i suoi beni.
Nell’ottobre 1946, a 18 anni, sono riuscito con uno stratagemma a scappare fino a Udine, dove sono stato accolto da una buona famiglia che mi ha aiutato a ricominciare il liceo scientifico.
Una notte del gennaio 1947 mio fratello maggiore, Gigetto, rischiando la vita, è riuscito ad entrare clandestinamente nel Territorio Libero di Trieste dove, pochi giorni dopo la mia unica sorella, Valentina, è sbarcata dalla motonave Toscana che da Pola (occupata temporaneamente dagli Alleati) portava in salvo migliaia di famiglie; entrambi i fratelli mi hanno raggiunto a Udine. A metà maggio, con un lasciapassare, è arrivato anche il resto della mia famiglia: padre, madre e mio fratello minore, Francesco.
L’Italia era uscita distrutta dalla guerra; ciò nonostante, noi siamo stati accettati con comprensione dalla popolazione friulana. Per mancanza di un lavoro, ben presto mio fratello Gigetto ha voluto emigrare in Australia dove è stato destinato alle ferrovie di Geelong, Victoria.
Nel ‘48, dopo la maturità, ho rinunciato a una borsa di studio quinquennale dell’Università di Siena per andare a fare l’istitutore dei bambini profughi nel collegio Fabio Filzi a Grado (GO). Il periodo vissuto nella caratteristica e poetica atmosfera di questa cittadina (quando non ci sono i turisti) è stato per me vera medicina che ha cercato di lenire il grande dolore per la perdita della patria, degli amici, del nostro dialetto veneto.
Alla fine dell’anno 1950, mi sono ammalato di emottisi, considerata allora quasi inguaribile e contagiosa come la peste. Proprio allora la Provvidenza ha fatto giungere dall’America all’ospedale di Grado la Streptomicina che mi ha guarito.
Dopo una lunghissima convalescenza tra le braccia di mia mamma, nel ‘53 ho potuto iniziare il biennio di ingegneria a Trieste, alternando lo studio col servizio alle pompe Shell che mio padre finalmente aveva ottenuto in gestione sul piazzale della stazione principale di Treviso.
A Trieste ho cominciato a frequentare la studentessa udinese di Lettere Santina Rossi, diventata poi mia moglie.
Sono passato quindi all’Università di Padova per fare il triennio di Ingegneria Chimica che a Trieste non c’era. Mi sono laureato a ottobre ‘56 e subito ho iniziato a lavorare nello stabilimento di Mozzate (CO) del Conte Giovanni Piccinelli che ben presto mi ha inviato in Gran Bretagna ad imparare il mestiere presso la famosa società Semtex.
Ci siamo sposati il 7 aprile 1958. il 12 gennaio ‘59 è nato Francesco, il 28 luglio ‘60 Alessandra, il 16 marzo ‘63 Giovanni e il 13 febbraio ‘66 – in condizioni tragiche – nasce Montsita. Già, perché dopo questo parto mia moglie stava morendo dissanguata. Per più giorni ci fu uno spettacolare concorso di donatori di sangue zero positivo e di preghiere di intercessione a una giovane spagnola (Montserrat Graces Garcia, morta santamente a 16 anni). Si è mobilitata anche la Polizia che dalla Svizzera ha portato un farmaco che è riuscito a bloccare l’emorragia.
Considerazione finale.
Sono pure contento di aver maturato nel corso degli anni una visione provvidenziale riguardo al corso degli avvenimenti politici del secolo scorso che hanno cambiato la società e la vita della terra di origine mia e dei miei avi”.
Mario Viscovi